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VARSALONA L’ULTIMO BRIGANTE II EDIZIONE

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Francesco Paolo Varsalona, un brigante fra mondanità e crimine nella Sicilia del Latifondo. Un efferato criminale dedito alle donne e ai soprusi. Nella seconda edizione aggiornata è incluso (attraverso la lettura di un qr code) il documentario “I briganti del Sud” del reporter Giuseppe Di Lorenzo

Francesco Paolo Varsalona aveva quarant’anni quando nel passaggio dal diciannovesimo al ventesimo secolo, trionfava, monarca sui generis, brigante modern style, signore del delitto, su un vasto comprensorio della Sicilia interna, la Sicilia del latifondo, la Sicilia setacciata dai Reali Carabinieri, dalle guardie di Pubblica Sicurezza, dai Bersaglieri e dai Militi a cavallo che davano la caccia a banditi e latitanti renitenti alla leva, la Sicilia della mafia che si radicava e saldava un patto d’alleanza con gli agrari e con la politica da questi espressa. Chi era Varsalona? Prima di divenire un malvivente leggendario, decisamente un mito nell’idea dei suoi contemporanei, era stato un povero capraio e un venditore ambulante; Varsalona era di un paese agricolo della provincia di Palermo, forte e di bell’aspetto, prima di cominciare la carriera brigantesca cominciò quella di seduttore impenitente, abbandonando la moglie per una donna provvista di qualche sostanza economica. Ma non era che l’inizio di un’infinita serie di conquiste femminili, avendo egli come i marinai una donna in ogni porto, una in ogni rifugio rurale, in ogni anfratto boschivo, in numerose case dei quattordici paesi sui quali emanava il suo funesto imperio; ci furono mariti che gli offrirono le loro mogli, le loro figlie nubili, si disse di un caso nel quale il brigante avrebbe addirittura esercitato il medievale jus primae noctis, ebbe quali amanti due donne della stessa casa: la madre quarantenne e la figlia ventenne; egli fu preda fino alla fine della sua vita di un’irrefrenabile inquietudine amorosa. Francesco Paolo Varsalona oltre che focoso Casanova del feudo, fu un brigante innovativo, modern style – come scrisse un cronista dell’epoca – perché adottò un modello organizzativo basato su due intuizioni: 1) il cosiddetto ordine sparso, cioè la banda si scioglieva subito dopo le operazioni sul campo e si rendeva imprendibile, perché diluita in tanti rivoli; 2) la creazione di una struttura estorsiva basata su contribuzioni fisse e periodiche da parte dei proprietari, con scarso ricorso agli assalti alle diligenze, al saccheggio dei monasteri, al sequestro di persona ed altre azioni eclatanti che avevano caratterizzato la precedente fase del brigantaggio siciliano. Varsalona poté contare su alleati illustri, esponenti di una nobiltà agraria che si dividevano tra le mollezze di Palermo e la vita rude e selvatica del latifondo dove trovavano la dimensione dell’avventura e degli antichi fasti eroici, in realtà essendo essi solo delle patetiche figure nostalgiche del passato feudale. In questo scritto, l’autore coniuga rigore scientifico e lingua narrativa: Accanto alla Sicilia bellissima e selvaggia delle distese di grano a perdita d’occhio di cui pure parlò Goethe, viene ricostruita la Palermo dei Florio, piccola ville lumière del Mediterraneo, mèta di esponenti delle maggiori case regnanti d’Europa, di grandi nomi dell’industria e della finanza americana, la Palermo che inaugurava il megalomane Teatro Massimo e celebrava senza risparmio l’ingresso nel ventesimo secolo, epoca di progresso infinito, fonte di illusioni necessarie, effimero fuoco di paglia, utile a contrastare le evidenti disillusioni sorte dopo l’Unità d’Italia che nel 1900 compiva quarant’anni, quanti ne compiva Francesco Paolo Varsalona, classe 1860, autore di delitti feroci, amante insaziabile, abile gabbatore di pattuglie di Reali Carabinieri, delinquente espresso dalla sociologia del latifondo.

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